I buoni, quando si guastano, diventano pessimi

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Che viviamo in un mondo non tutto rose e fiori lo si sa, d’accordo. Che sia giusto cavarsela da soli pure. Che ognuno debba strafregarsene di quello che dicono gli altri, soprattutto se sono altri in cattiva fede, anche. Però non c’è niente da fare: io mi ritrovo questo vizio di pensare che certe cose non si dicono mai abbastanza e che questo mondo è già molto, ma molto pieno di gente che se ne sta zitta, che risparmia il fiato e l’inchiostro, quando si tratta di parlare o scrivere a favore, e al massimo sproloquia elegantemente dalla mattina alla sera di cose su cui, in realtà, forse non ci sarebbe molto da dire. Per cui credo proprio che dirò la mia – non farò nemmeno male al pianeta visto che sarà tutto online. Continua a leggere

Questionario proustiano sulla scuola #2 – PAOLO MOTTANA. Fate l’amore con il sapere (pubblicato su Barbadillo.it)

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Adesso immaginate che la scuola non ci sia più. Che non ci siano più gli orari, le aule grigie e squadrate, le cattedre, le lavagne, gli zaini spaventosamente pesanti. Che non ci siano più i compiti, le verifiche, i voti. Immaginate dei bambini che possano imparare dentro edifici belli, colorati, pieni di natura viva, e soprattutto fuori: nelle città, nel mondo. Che possano coltivare prima di tutto l’entusiasmo e la libertà, provare il piacere dell’avventura e della caccia alla vita, della salute e dell’energia, quello della ribellione e dell’affermazione. Immaginate che imparare non sia più un obbligo, ma un desiderio, un’attività erotica, come lo era nell’antica Grecia, e insegnare non un dovere, ma una passione. Immaginate di imparare con Dioniso e non con Saturno. Paolo Mottana ha immaginato tutto questo, con un entusiasmo generoso verso quell’età speciale che è la prima giovinezza: la sua risposta ai problemi della scuola moderna si chiama controeducazione (www.contreducazione.blogspot.com). Già docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, Mottana insegna filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca e studia i rapporti tra filosofia, educazione, arte, immaginario (Eros, Dioniso e altri bambini. Scorribande pedagogiche, Franco Angeli Edizioni; Piccolo manuale di controeducazione, Mimesis Edizioni, La gaia educazione, Mimesis Edizioni). Diffonde il messaggio controeducativo in numerose conferenze e incontri trasversali con il pubblico, facendone un impegno davvero politico. Nella prima pagina del suo ultimo libro si leggono parole dalla baldanza fiumana: “Preferiamo: alla fatica la passione e il piacere, alla negazione l’affermazione, alla preservazione il rischio, alla mente il corpo”. Continua a leggere

Questionario proustiano sulla scuola #1 – ANNAMARIA TESTA. Insegnare con intelligenza, metodo e creatività (pubblicato su Barbadillo.it)

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Lei è la bella ragazza che si vede di spalle nella famosa pubblicità del Luxardo degli anni ’80, quella che parla, anzi scrive, con la erre moscia. E poi è la ragazza della Golia che sfrizzola il velopendulo e galvanizza l’ugola, di “Liscia, gassata o Ferrarelle?”, delle pagine promozionali di Ciocorì, della Fiat, di Bticino, Illy e poi ancora e ancora, passando per molte delle più celebri pubblicità. Annamaria (nomen omen) Testa (nessun legame di parentela, però, con Armando e l’omonima agenzia) è la voce instancabile e appassionata della creatività italiana; copywriter negli anni ruggenti della pubblicità, ha lavorato per le più grandi agenzie di comunicazione e nel 2005 ne ha fondata una: la società Progetti Nuovi.
Sul suo sito NuovoeUtile, dedicato alla diffusione di “teorie e pratiche della creatività”, si occupa di tutto quello che un tempo sarebbe stato definito disciplina umanistica – lettere, psicologia, arte, mondo del lavoro, educazione e, naturalmente, tecniche di scrittura (La trama lucente e Minuti scritti, Rizzoli, andrebbero adottati a scuola come libri di testo, insieme all’antologia) –, cercando di fare dell’intelligenza opera d’arte. Prima donna a essere entrata nella Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano, è consulente, giornalista per le pagine di Internazionale.it e insegna all’Università Bocconi di Milano. Negli anni, è stata ideatrice e promotrice di iniziative di valore come #dilloinitaliano, petizione per salvare la lingua italiana dagli orrori del burocratichese e dell’itanglese, il corso per la prevenzione degli incidenti e il pronto soccorso pediatrico. E, soprattutto, le novantacinque tesi sulla scuola per migliorarla e vivificarla, ripulendola dai tecnicismi sterili e dai moralismi inutili.
Perché “chiedere all’analisi testuale di dar conto della magia di una narrazione è come chiedere a un anatomopatologo di dar conto del sex appeal di Marilyn Monroe”. Continua a leggere

Scuola# – Perché lanciamo un ciclo di interviste con un questionario proustiano

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Va quasi sempre così: ci si accorge che qualcosa muore – un sistema, un mondo, uno stile – solo dopo aver aspirato per mesi (o decenni, addirittura) l’odore della putrefazione. Come con quella professoressa morta da due anni nel suo appartamento di Roma e ignorata dai vicini, di cui Francesco Merlo ha voluto, in uno slancio di spericolato lirismo, fare poesia e metafora. Professoressa non a caso. È spaventosa allegoria del suo mestiere.
La scuola di oggi sta morendo e noi ci giriamo dall’altra parte. O, peggio, acceleriamo la sua fine. Abbiamo lasciato passare i decenni senza pensare alle sue incongruenze. Le abbiamo permesso di tirarsi avanti stancamente, per inerzia. Sono passate le guerre e le polemiche del ’68. I delitti politici e quelli di mafia. La droga e l’Aids. Internet e la scoperta dell’orgoglio gay. Il lavoro stabile, la morte naturale. Continua a leggere

Cari bambini

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Cari bambini,

tra pochi giorni ricomincerà la scuola. Tra poco bisognerà ricordarsi di prendere tutto l’occorrente per le lezioni, preparare gli zainetti o le cartelle, mettere la sveglia presto la mattina, far colazione all’alba, buttare la faccia sotto l’acqua gelata, uscire mezzi rimbecilliti e in panico e arrivare in quell’edificio che presto l’irenista di turno chiamerà la vostra seconda casa. Continua a leggere

Generi di lusso – pubblicato su Cultrura, rubrica delle Edizioni di Ar

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Diciamoci la verità: in fondo siamo dei viziati, degli incontentabili, troppo ben abituati per renderci conto di quante sorprese, stimoli, prospettive inaudite ci offra questo mondo di oggi. Siamo così abituati, come playboy di lungo corso, che nemmeno riusciamo più a eccitarci. Viviamo in un romanzo e non lo sappiamo. Io ho avuto l’illuminazione qualche giorno fa e da allora sono eccitata come una lettrice di Harmony, mi sento in un libro di Bradbury o Lovecraft e mi chiedo come andrà a finire.
Gli ingredienti ci sono tutti: grandi masse di persone, nuove ideologie dal fascino straniero, alieni, mutanti, sollevazioni, gruppi di difensori della normalità, i media che condizionano, una tragedia imminente e il senso che ai buoni non sarà facile spuntarla.
La storia credo la sappiate un po’ tutti. Nei ruggenti anni settanta, dopo i divertimenti del decennio precedente e i viaggi esteri e interni d’ogni genere, tra una capanna indiana e un tatuaggio psichedelico, nel Nord America agitato nascono in seno alle minoranze femministe le teorie dei gender studies, o studi di genere, che, dopo qualche elucubrazione, approdano alla conclusione che un conto è il sesso, che ci viene dato da Madre Natura e dal nostro corredo genetico, un conto il genere, che proviene dai condizionamenti ambientali e dalla realtà che ci circonda. Secondo la stessa teoria, l’educazione del futuro ha il compito di lasciare al bimbo la completa libertà di scegliere, a prescindere dal pisellino o dalla farfallina, quello che più gli piace, e perciò nessuno gli dovrà mai dire che cos’è, finché il fantolino non lo scoprirà da solo.
Bene. Gli anni settanta sono stati un decennio sicuramente divertente; ci sono state le lotte di piazza, è uscito ‘The dark side of the moon’ dei Pink Floyd, suonano i Led Zeppelin, al cinema proiettano Guerre Stellari, si inviano sonde nello spazio, si diffondono i gruppi di yoga, si scopa come ricci, si prova un po’ tutto il provabile e talvolta ci si rimane, si preparano i ruggenti anni ottanta con il loro corredino di siringhe e fantasia. Anch’io mi gingillo spesso leggendo i resoconti di quegli anni come vecchi libri d’avventura e passo in rassegna le teorie psicologiche e politiche che trovo stimolanti e ispiratrici, grandi prove della capacità immaginativa dell’essere umano. Però dopo torno alla realtà, non mi è mai venuto in mente di provare quel famoso fungo allunga-vita o di rifugiarmi nel cyberspazio.
Invece, la cosa strana è che la teorie dei gender ha preso piede e, di più, sta marciando spedita.
Nella mitteleuropea Trieste, dove tutto arriva prima rispetto al resto del mondo, negli asili (che adesso si chiamano scuole d’infanzia) qualche tempo fa hanno pensato di proporre dei laboratori psicologici di superamento del genere, sotto il nome di ‘Gioco del rispetto’, in cui fanciulli e fanciulle sono stati educati a scambiarsi i vestitini per sperimentare che cosa si prova in un caso e nell’altro e, scoperta dell’acqua calda, ad ascoltare il battito del proprio cuore dopo una corsa che, come si sa, è uguale tra maschio e femmina. Non a caso a Trieste c’è il più alto numero di suicidi in Italia, ho pensato. Tira un’aria un po’ così. Piove. Fa freddo. C’è la bora.
Ma anche in molte altre città italiane, Venezia, Verona, Milano, Roma, nelle scuole si propongono temi simili, si pubblicano e si diffondono libri dalle illustrazioni molto carine e dalle trame molto spiazzanti, che raccontano degli idilli familiari del bimbo con due papà, oppure spiegano, passo dopo passo, i vari tipi di famiglie esistenti – single, etero, gay e adottive e così via. Il caro vecchio Altan, quello che ha fatto crescere generazioni di ragazzi e ragazze sopra i pallini rossi della sua Pimpa e il berretto dell’Armando, si è dato da fare e ha disegnato un nuovo personaggio, un uovo bianco candido, Piccolo Uovo, che ancora non sa se sarà maschio o femmina, sta in copertina a gambe larghe con la tuba nera in testa e i tacchi a spillo rosa e intanto viaggia, tra famiglia e famiglia, per farsi un’idea su quale preferirà adottare. Sui giornali, fioccano interviste a persone che hanno cambiato sesso e che vengono presentati al pubblico come nuovi eroi, gente capace di vero coraggio e sopportazione – un tempo c’erano i volontari di guerra e le madri di quindici figli, oggi i transgender. Intellettuali raffinati come Mariapia Veladiano, che di mestiere fa anche la preside, si slanciano in interventi tra il filosofico e il paraculo:
“Quel che la scuola davvero fa, e deve, è combattere gli stereotipi di genere. Ma essere contro questi stereotipi non significa dire che il genere non esiste. Significa educare a vedere dove sta la trappola di un sé condizionato da precomprensioni che autolimitano non solo le scelte ma il pensiero stesso, il desiderio. Per cui le bambine nemmeno sognano di diventare astronaute perché la loro educazione, implicita o esplicita, ha beneducato anche i desideri. La consapevolezza degli stereotipi di genere è una conquista lenta, lo stereotipo vive di un’inerzia sociale naturale ed è funzionale al vantaggio o al potere di qualcuno. E al potere il nemico serve. Ci sono poteri che si squagliano se vien meno il nemico. E anche alla paura il nemico serve. La saldatura tra potere e paura è micidiale. Il gender è una manna. Ogni giorno un po’ e lo sdegno è servito, il nemico è servito, il pensiero è congelato e si sente meno la paura per quel che non si capisce.”
Ci si solleva in un’onda di indignazione se i sindaci o i comitati di genitori protestano e fanno ritirare dalle biblioteche scolastiche i libretti sopra descritti. Poi accendi per caso la radio e becchi l’intervento di un genitore che racconta l’aneddoto fresco fresco: un bel giorno il figlio torna a casa da scuola e chiede a mamma e papà: “Ma io sono maschio, femmina o gay?”
Sui social network si sfottono i genitori del family-day, si condividono all’impazzata articoli dal titolo tipo: “L’unica famiglia naturale è composta da due antifascisti”, si protesta giustamente contro gli ogm ma non contro chi pensa di modificare se stesso e sotto il grande ombrello deIla libertà e dei diritti si fa finire un po’ tutto, anche le assurdità.
Il genere è la nuova bestia nera, tempo qualche annetto e non si potrà più studiare la logica aristotelica, con la sua definizione da elaborare attraverso genere prossimo e differenza specifica.
Io sono la prima a non avere simpatia per i pregiudizi e le chiusure. Credo nella libertà di scelta dell’essere umano – a lui le conseguenze. Il punto è che allora non mi sembra giusto trascurare le minoranze. Non è una vera crudeltà sbattere in galera il ladro che ha svaligiato la banca, visto che il suo gesto partiva da un desiderio, e cercare di curare nelle cliniche i bulimici e gli alcolizzati (non sono forse desideri anche i loro? Non si sta alterando, dall’esterno, qualcosa che ha a che fare con la loro natura? Che cosa c’è di non istintivo in loro, vivaddio!)?. Insomma, anche tu, anche tu che leggi, se ci stai a pensare più a fondo, ti verrà sicuramente qualche grillo per la testa. Ti farai molte domande. Amletiche prima: sono maschio, sono femmina, ma, perché no, sono singolare, sono plurale. (Credo che per molte persone sarebbe un vero sollievo dichiararsi plurali, e anche un gesto di sincerità: è solo una parte di me, caro, che parla, poi c’è quella melanconica, quella isterica, quella un po’ pantofolaia, quella di donna in carriera…) E ancora: sono uomo o animale o dio? – questa, da riservare agli esperti. Infine, se dalle domande più filosofico-spirituali passerai a quelle più ordinarie finirai anche per domandarti perché diavolo non puoi andartene a Roma a prendere possesso di un pezzettino della Galleria Borghese, per esempio. Io mi accontento del ‘Ratto di Proserpina’ o dell’’Apollo e Dafne’; vi giuro che è un desiderio fresco, puro, incondizionato, non me l’ha inculcato nessuno, né la scuola, né lo stato, né i miei genitori, ho capito che è proprio mio, mio e basta, è un desiderio chiaro e tondo, per cui mollate subito le chiavi sennò comincio a inquietarmi, ho dalla mia la giustizia sociale, come sarebbe a dire che non si può, protesto per il rispetto dei miei diritti, attenzione!, è un’indecenza, bisogna organizzare una manifestazione!
Come? Non si può proprio?
Allora, ultima proposta: mi è venuta in mente una soluzione. Diciamo che possiamo trovare un accordo economico, come indennizzo. Mi accontento dei 200 milioni di euro all’anno che il governo, in questo bel tempo di crisi, stanzia per le operazioni dei transessuali (gli stessi che si lamentano perché non ritengono adeguate le strutture presenti sul territorio). Poi, visto che penso saremo in tanti ad avere lo stesso desiderio artistico, come è giusto, direi che potremmo dividerceli. Be’, penso che potremmo proprio raggiungere un accordo, sì.

Link a Cultrura, Rubrica delle Edizioni di Ar