«Il problema di cui occuparsi non dev’essere per noi quello della ripartizione della ricchezza, ma come riuscire a subordinare la ricchezza alla vita, alla bellezza» (Giulio, l’Autocrate)
È maggio nel capoluogo lombardo. Nulla a che vedere col maggio parigino di ormai quasi cinquant’anni addietro. Anche se, in una certa misura, è proprio la normalizzazione degli afflati rivoluzionari del ’68 ad aver segnato la vittoria del Sistema. Di quel paradigma unidimensionale capace di ammansire e sussumere ogni tensione realisticamente utopica. Utopismo diviene il nome di questo zombie che rivendica un’alterità fittizia e atopica, prigioniera della liquidità virtuale che, appunto, non ha luogo pur essendo pervasivamente dappertutto.
Eppure, proprio in uno snodo che il pensiero unico ha profondamente a cuore, quello dell’editoria, si apre un’oasi in cui respirare e prendere fiato. Un’oasi che ha un titolo, Non ci sono innocenti, un editore, Ar, e due autrici, Anna K. e Silvia Valerio. L’immagine jüngeriana dell’oasi, luogo di libertà e resistenza all’interno del Leviatano della modernità, è particolarmente appropriata se si considera che essa è consustanziale, secondo lo scrittore tedesco, a tre precisi ambiti: morte, eros e arte. Sono proprio alcuni fra i temi più decisivi del romanzo delle sorelle Valerio, che qui raccontano la storia di Franco Freda, Giovanni Ventura e dei membri dei loro gruppi militanti fra il ’67 e il ’69. Ecco, in questa intervista per Barbadillo.it la visione del romanzo di Silvia Valerio. Continua a leggere