Un’intervista a cura di Andrea C. sui temi del primo pamphlet ‘C’era una volta un presidente’

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Ciao Silvia, allora, cosa provi a distanza di sei anni a parlare nuovamente del tuo “C’era una volta un Presidente” mentre sei in giro per l’Italia a presentare “Non ci sono innocenti” scritto con tua sorella Anna? Un po’ di noia? E riguardando la copertina sei ancora tu o ti sei trasformata, invecchiata, rifatta?
Ciao, Andrea. Tutt’altro che noia, ho impressioni positive. Rimango sempre affezionata a quel piccolo e pestifero primo libro, pur nella consapevolezza che oggi lo scriverei meno duro in alcune sue parti. Quindi mi fa piacere discuterne. Quanto alla copertina, fonti vicine all’autrice affermano che è sempre uguale. Ritocchi? Mi dà fastidio solo il pensiero di modificare in maniera così profonda, intima, il proprio corpo, per poi ritrovarsi zigomi, bocca, seno identici a quelli di moltissime altre donne, e porzioni di plastica tra cellula e cellula… Sono un’innamorata del corpo umano, quando è autentico, naturale: mi piace scoprire i disegni unici che ciascuno di noi si porta addosso, le tracce delle espressioni, le proporzioni armoniche o disarmoniche, anche i difetti. Tutta la nostra storia è scritta sul corpo e trovo che sia molto affascinante tentare di interpretarla. Quello che cerco nelle persone è vita, espressione, unicità, interpretazione: pensa a quanto sono belli certi visi di vecchi che trascolorano di emozione in emozione… Non a caso i giapponesi hanno elaborato diversi concetti di estetica che danno dignità anche all’imperfezione, al vuoto o a una particolare irregolarità come veicolo di significati. Quando le loro tazze di ceramica si scheggiano, colano oro o argento liquido nelle crepe, oppure li usano per saldare i frammenti. Le ferite preziose del kintsugi trasformano i vasi in piccole opere uniche.  

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