Il caso. Perché siamo contro la dittatura delle piccole violenze professionali – di Anna K. Valerio

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di Anna K. Valerio

Era così era così era così. Hanno ragione le ragazze. Me lo ricordo benissimo. Il bacio sulla guancia che sbadatamente arriva a sfiorarti le labbra, o ci scivola sopra aspettando che tu magari le socchiuda un po’; l’abbraccio con sottintesi chiari, le ripicche, le “piccole vendette” (così le chiamava un mio piccolo aguzzino). Me li ricordo benissimo i diciannove, i venti, i ventuno, i ventidue anni in cui facevo la giornalista. A Verona. Per lo più spettacoli e cultura, con qualche puntata nella cronaca. Anche più di venti articoli-abbracci al mese. Ho intervistato Alda Merini a casa sua, Botero a Pietrasanta, Albertazzi pure a casa sua, la casa sua di cinque sere, il Teatro Romano. Un risarcimento danni mica da poco…

Poi ricordo che feci il gran rifiuto.

Perché il ricatto, l’aggressione subdola, ti toglie il fiato piano piano e all’improvviso ti accorgi che stai pendendo da una corda. Prende la realtà e comincia ad alterarla, a metterti il sospetto che sia solo un capriccio, un punto di vista. E invece no: la realtà è una, e se vuoi stare bene con te stesso devi stare bene con la realtà. La realtà è che se sei bravo è giusto che lavori; non se sei compiacente, non se ti lasci abbracciare più a lungo del giusto, non se esci a “cena”, non se accetti un “caffè”.

Un bello schiaffo alla santa ingenuità della giovinezza – no? – vedere che chi ti commissiona l’articolo si aspetta un “grazie”, così le righe si allungano, così sulla pagina il pezzo sale di importanza, così la firma viene stampata in testa in maiuscolo. E i regalini di San Valentino che ti fa scivolare in mano, sciocchezze, ma con il doppiofondo: la corda che può impiccarti.

Ho l’impressione che per molte sia facile perdersi nella confusione che i potenti creano muovendosi con quella irreale naturalezza da padroni. Rassegnarsi al peggio, perfino senza dolore. Se ti salvi, è solo con un urlo di rabbia che ad un certo punto vuole liberarsi di tutto. Il bisogno di ossigeno, subito. Di rinascere da un’altra parte. Di non sentirti più quei fiati addosso. Che in testa non ti rimbombino i “grazie” e i baci sdrucciolevoli e gli abbracci trattenuti e le allusioni.

Perché quello non è il gioco della seduzione. La seduzione sta esattamente all’opposto della prepotenza. È libertà, è volo, è danzare al di sopra dei mostri della rabbia che si fa dolore – e a quale femmina potrebbe non piacere?

Il ricatto, invece, la imprigiona, la grazia.

Ecco: a diciannove, venti, ventuno, ventidue anni, ho scoperto un mondo senza grazia. Senza onore. Senza dignità. Se il gioco diventava lavoro, il lavoro allora diventava un gioco senza regole.

Eh, beh, sono fuggita. Ho tagliato tutti i ponti, spento il telefonino per mesi e mesi, finché la lista delle chiamate senza risposta si era mangiata da sola. Via da quella violenza dissimulata in carezze e baci e abbracci: non quella di chi ti fa il male, ma quella angosciosa, infame, di chi può toglierti il bene.

Certo, il male che mi è toccato dopo come ‘castigo’ della società per le mie scelte è stato infinitamente più cattivo. Il mistero del male… Da far sembrare l’altro una barzelletta.

Sì, diciamo che ho voluto raccontarvi la barzelletta dei miei vent’anni.

 

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