Intervista a cura di Andrea C.

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Ciao Silvia, intanto come stai vivendo questo inizio d’autunno e come è andata l’estate alle spalle? E quest’anno fino ad ora come è andato?
Ciao Andrea. Che piacere. Finora è stato un anno molto interessante, in cui ho conosciuto, sperimentato e lavorato molto, anche nell’estate che si è appena sciolta alle nostre spalle. 
Stai scrivendo per caso e cosa stai leggendo o guardando per il tuo piacere personale? Non si vive solo di Ar….eh eh.
Ma certo che no! Sai che leggere e curiosare anche fuori dalle mie cerchie è un vizio di cui non mi libero facilmente.
Dunque. Il libro più bello che ho (ri)letto: ‘La veglia’ di Anne Enright. 
Le pagine metafisiche migliori: quelle di un libro di Yoga del 1965.  
Le poesie: i versi di certi scrittori orientali di centinaia di anni fa, per come sono capaci di condensare la vita e fartene sentire il sapore sotto i denti. 
I film: ‘Quel treno per Yuma’ e ‘The departed’, per come ti insegnano che la vita è una sfumatura tra bene e male. ‘Lussuria’, di Ang Lee, per l’inquietudine. ‘Dracula di Bram Stoker’, ‘Bright Star’ di Jane Campion e ‘Leon’ per la purezza dell’eros. ‘Fight club’, per l’ultimo minuto e trentacinque. 
La colonna sonora delle mie ultime giornate è affidata principalmente a Bruce Springsteen: un colpo di fulmine del tutto imprevisto, ‘Dream baby dream’, immediatamente seguito da ‘Trapped’ e ‘Devils&Dust’. 
Fear’s a dangerous thing/ it can turn your heart black you can trust/ It’ll take your God filled soul/ fill it with devils and dust.
(La paura è pericolosa, credimi: ti annerisce il cuore. Prenderà la tua anima piena di Dio e la riempirà di demoni e polvere.)
Mi sembra che abbia descritto con poche parole l’uomo moderno. Che, forse, non ce l’ha nemmeno piena di Dio, l’anima. 
Sullo scrivere, sai che sono una sciocca superstiziosa, e quindi taccio. Spero mi perdonerai!  

Cosa bolle in pentola nelle Edizioni di Ar per questi ultimi mesi del 2017 e cosa ci aspetta per il 2018? Degli ultimi pubblicati quali sono quelli che consiglieresti maggiormente? Personalmente fra gli altri ho letto quello di Cristina Coccia che fa parte di quelle letture “pericolose”. E mi piace lo stile delle nuove copertine.
Il fuoco di Ar con la stagione fredda brilla più che mai. Da poco è stato pubblicato uno studio del professor Pacilio, ‘L’invasione’, che indaga il problema migratorio nelle sue componenti più sotterranee e tragiche e spiega verso quali enormi pericoli ci stiamo dirigendo, scappando da quelli di piccole dimensioni. Si potenzia proprio se letto insieme al libro di Cristina, ‘Un futuro senza avvenire. La generazione della decisione’. In questi giorni è stato poi ripubblicato, in una nuova edizione, ‘Un amore in guerra’, di Riccardo Bacchelli, che ti consiglio sicuramente, anche solo per quella sensazione remota di un mondo in guerra e per quell’Enrico De Nada che ‘aveva confusa la stanchezza sua dentro quella d’un esercito e d’una popolazione da tre giorni senza sonno, senza pane, senza tetto; certi solo di un domani terribile. Era così grande che non poteva stargli in corpo: gli stava alle spalle; come uno fugge davanti all’onda dell’acqua straripata, la sente dietro, ma non si volta, perché solo vederla l’abbatterebbe, così per qualche miglio De Nada non sentì la sua stanchezza, neanche adesso che era solo, perché solo in pensarla vi si sarebbe sommerso.’. La storia d’amore tra De Nada e Cecchina Gritti sarà seguita dal volume ‘Kitartàs’, dedicato alle croci frecciate ungheresi.
Ti lancio alcune parole: ius soli, sciopero della fame a intermittenza, legge elettorale, utero in affitto, legge Fiano, madre. Usale come vuoi. Sbizzarrisciti.
Cielo! Quanti paroloni importanti, tutti in un colpo solo. Scritti così, sparsi, sai che tentazione mi fanno venire? Quella di scriverci una storiella cretina in cui un onorevole, persa la testa per una bella immigrata conosciuta tra Montecitorio e palazzo Madama, inizia un avventuroso sciopero della fame a scopo peso forma e matrimonio. La lotta è dura ma lui non cede. Alla lunga scompaiono le guanciotte, il doppiomento. Ritorna perfino il sorriso. Infine, rinato a nuova vita, sebbene un po’ provato, l’onorevole addenta una mela e si dirige a chiedere la mano della maliarda, che però, ahimè, non lo riconosce più e si rifiuta. Il cuore dell’onorevole è spezzato, sanguina peggio della tagliata in cui adesso affonda con disperazione e suicidio il coltello, mentre tutto intorno a lui sembra crollare, e tutto perde importanza, la destra diventa sinistra, il bianco diventa nero, il voto diventa astensione. Finché, a un tratto, nei pressi del ristorante stellato, una voce non lo colpisce, risuonando in modo equivoco in quella zona sotterranea, un po’ più in giù dell’ombelico, dove la pelle è ancora più morbida, debole e gli fa riprovare le emozioni delle prime cotte, dell’adolescenza, quando ancora era felice e libero di girare in bicicletta dove e quanto gli pareva, senza fotoreporter che ti seguissero, quando i segreti non erano quelli degli scrutini ma quelli seppelliti sotto i lettini e i cinque stelle erano quelli San Montana.   
L’onorevole si volta, viene colpito da una femminilità a dir poco particolare, calze a rete fina, tacchi a spillo rosa confetto, tailleur attillato ma elegante. Ma c’è qualcosa, qualcosa di unico, di inafferrabile, che promana da quella persona, qualcosa che ha a che fare con le spalle ben definite, con lo sguardo con cui lo punta mentre fuma la Marlboro, con la seduzione aggressiva delle gambe incrociate. 
L’onorevole si abbandona. Sente scorrere di nuovo la vita, soprattutto laggiù dove non batte il sole. E sarà proprio lui, poche ore dopo, a chiedere a Rosario, detto Rose, di batterlo sulle terga adesso toniche, come faceva la mamma, appena con più tenerezza, e, d’un colpo, quanto diventa dolce pensare al collega Rosato e al Rosatellum e ad approvare quel provvedimento. L’onorevole riscopre il piacere della politica. Non pensa più di assentarsi. Non si sottrae. Si dona. Ogni giorno, dopo una notte calda d’amore con Rose, sceglie la sua camicia migliore, niente più cravatte ma solo graziosi e ariosi papillon, si profuma e va al lavoro col sorriso sulle labbra. Concede interviste, concede commenti. E soprattutto approva. Approva. Approva tutto quello che gli propongono. Provvedimenti, decreti, commenti, ipotesi, menù. Finché i colleghi non cominciano a preoccuparsi. Lo guardano con sospetto. E il sospetto diventa ansia. Di quel passo, sono rovinati. Si decidono le cose, si va troppo veloce. Nel bene, nel male. L’onorevole in sala fa venire il mal di mare. Discute, agisce. Va al punto. Pragmatico. Adolescente ma energico. Con lui, l’Italia sembra una bambinetta lanciata a duecento allora su una Maserati Levante, di quelle con finestrini oscurati e differenziale a slittamento limitato. 
Bisogna fermarlo. 
Così, come spesso succede, non tutto può andare bene nello stesso tempo. 
Con un’abile manovra, i colleghi ce la fanno. Scoppia uno scandalo. La famiglia paterna dell’onorevole viene travolta da una polemica a tema stupefacenti. Delle così brave persone, però se si deve si deve. 
L’onorevole si dimette. 
Ma non prova più dolore, neanche quando sente il vecchio padre balbettare, davanti alle telecamere delle Iene, che lui, una canna, al massimo se l’è fatta nel ’68. 
Perché la politica non sa che l’amore è tutto e tutto è amore. Che non puoi sottrarti quando il destino ti viene contro. 
L’ex-onorevole non soffre più, perché ormai ha scoperto la sua strada. 
E la sua strada è quella che dichiara nell’ultima intervista che rilascia. 
Essere madre. 
Personalmente io sono rimasto imbarazzato da questa campagna di abbattimento delle statue che sta attraversando tutto il mondo. Chissà magari un giorno ci troveremo a ammirare le statue della Boldrini nelle piazze italiane e le gigantografie di Vendola o della Cirinnnà come salvatori del genere umano. Cosa ne pensi?
Che incubo. Non suggerirmi scenari peggiori di quelli che già produce la mia immaginazione!
Nei giorni scorsi un mio amico di sinistra s’è messo a parlare di Nina Moric e del suo appoggio a Casa Pound e subito dopo mi fa “Ti ricordi la bionda che é andata in tv da Chiambretti, cazzo, è una super fascista, mica me lo hai detto quando mi hai prestato il libro”. Sono scoppiato a ridere e lui ha aggiunto “Se queste due che son state in tv si presentano alle elezioni forse prendono milioni di voti”. Ti giuro che avrebbe volentieri mandato alla malora tutto per votarvi. Allora, come commenti, non tirarti indietro, questa roba di Nina Moric e a parte questo hai mai pensato di presentarti a qualche elezione e sei mai intrigata da questa tentazione? Te l’ha mai chiesto qualcuno? (questo sarebbe un super scoop)
Intanto, ringrazia il tuo amico, per la stima e la qualifica di ‘super-fascista’ ad honorem che mi mette molto di buon umore (ci saranno abbinati dei super-poteri? Tipo il saluto romano invisibile o la croce celtica a propulsione? Chissà). Anche se, forse gli dispiacerà, ma non sento di meritarmi un titolo così altisonante.  
Per Nina Moric non ho né una grande infatuazione né un’antipatia. Non mi ha mai attirato particolarmente, come figura dello spettacolo, e non la seguo abbastanza per poter esprimere un giudizio valido; certo si intuisce che alcune critiche le vengono mosse solo sulla base della solita, vecchissima storia dell’invidia. 
Mi piace l’idea di abbinare politica e bellezza. O politica e arte. Per natura, sono due ambiti nati per stare insieme. 
Se dovessi concepire un movimento, per prima cosa recluterei tecnici e artisti. Li farei ragionare insieme e cooperare nei diversi ambiti: la scuola, il sistema sanitario, il lavoro, la giustizia, la burocrazia, lo sport – portando idee il più possibile inedite.
Il dialogo tra le due componenti sarebbe obbligatorio e costante, così da farle bilanciare. Così come mi piacerebbe introdurre una regola di osmosi tra lavoratori pratici e i cosiddetti operatori della cultura. Una volta all’anno, per un mese circa, i ruoli si invertirebbero: i giornalisti, critici, direttori di giornali etc. andrebbero, a titolo d’esempio, in campagna a gestire una fattoria e agli agricoltori verrebbe data la possibilità di ascoltare conferenze e ‘fruire della cultura’ seria. Penso che sarebbe un’occasione per liberare dai complessi d’inferiorità culturale i più semplici e far risollevare dalla depressione i radical chic e far loro scrivere cose più vive e sensate. 
Però forse a un certo punto mi appenderebbero a testa in giù.
In generale come vedi la situazione politica attuale? Io ci vedo una grande ipocrisia di fondo. In tanti mi parlano di Salvini o di questo quell’altra ma poi alla fine respiro sempre tutta questa melassa insopportabile, una volare basso molto materialista, un bla bla bla continuo di cui tendo a disinteressarmi.
Ti rimando alla storiella dell’onorevole. Direi che condensa bene la mia opinione sul tema. 
Oggi ci vorrebbe una politica fatta di verità, cuore e sguardo. Ne abbiamo piene le palle di burocrazia, ipocrisia, calcolo, prostituzione dell’anima e dei discorsi (quella dei corpi è il meno), ricerca del consenso a tutti i costi, livellamento della qualità, importanza del numero. Ci soffoca questa palude di apatia che si espande, questo nulla marcio fatto di piccole comodità, social, viaggetti, cibo, tecnologie facili, in cui piace annegarsi. 
Ci vorrebbe una politica completamente nuova. Che aprisse i polmoni.
Ma soprattutto, dall’altra parte della strada, ci vorrebbero persone provviste di questi polmoni: capaci di volontà, di responsabilità, di inventiva e iniziativa, persone che smettessero di lamentarsi e di parlarsi addosso e capissero che si fa politica sempre, vivendo. In base alle decisioni che prendiamo o non prendiamo, a quello che compriamo o non compriamo, a quello che mangiamo, che leggiamo, scriviamo, ai commenti che lasciamo sui social network, alle telefonate che facciamo o non facciamo, alle nostre parole, ai silenzi. A come facciamo l’amore. 
E se è vero, come disse Ronchi, un teologo friulano delle mie parti, che il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza, forse l’uomo medio di oggi l’amore non lo fa mai.
Visto che l’intervista gioca fra serio e faceto mi piacerebbe chiederti qualcosa sulla tv/social/internet mescolandola ad altro. Guardi qualcosa o te ne freghi completamente? Quando la accendo non faccio che incrociare talk show, noiosissimi programmi pseudo culturali, reality show di ogni genere e una valanga di programmi sulla cucina. Ultimamente sono stato a Milano e ho trovato una città che praticamente si é votata esclusivamente al turismo, con una valanga di locali che sembrano usciti dai programmi tv. Mi sono sentito come immerso in un palinsesto televisivo che sta corrodendo anche esteticamente i nostri spazi vitali. É un processo in atto da anni ma ormai sembra di vivere in un mondo che materialmente sta dimostrando la propria decadenza e nessuno se ne accorge.
Da curiosa abitatrice dell’oggi non mi tiro indietro rispetto a nulla. Navigo su internet, osservo i social, ascolto la radio. La televisione è forse quella che seguo di meno, ultimamente, però so che programmi circolano e sono completamente d’accordo con la tua diagnosi.
In un certo senso mi dispiace. (Anche per Milano: quella meraviglia del Duomo non si merita certi vicini di casa…). Questi che si sono sviluppati negli ultimi anni sarebbero tutti degli strumenti straordinari per propagare idee e raggiungere un’infinità di persone. Anche per muovere costruttivamente l’economia. Invece vivono di infinite ripetizioni e banalità costosissime. 
Qualche idea. 
1. Offrire una vacanza-studio obbligata a Fazio, Bignardi, Mentana, Blasi, Ventura, Baudo e affidare la conduzione di programmi di intrattenimento e informazione a volti mai visti prima, che avrebbero il compito di fare un po’ come gli pare. Mal che vada, sarebbe una cosa curiosa. 
2. Togliere il canone Rai ma imporre una tassa sui programmi di cucina. Per chi li produce, per chi ci lavora e per chi li guarda. Promuovono lo spreco, l’obesità, il sedentarismo – e, soprattutto, hanno decisamente rotto.
3. Snellire e rimettere in sesto tutto il sistema di agenti dello spettacolo. Qualcosa di centralizzato, pulito, controllato, accessibile e ben gestito, in grado di permettere una normale e serena candidatura degli artisti e di garantire nel tempo una giusta qualità degli stessi.  
4. Spazzare via dalla faccia della terra, in un monastero zen, tutti quei parassiti tipo gli aumentatori di mi-piace delle pagine VIP, i sostenitori dei sostenitori, gli agenti degli agenti, gli eserciti del televoto e tutti gli altri tentacoli della piovra multimediale. 
5. Stipendi variabili: medio-alti per un nuovo progetto, in calando per le ripetizioni. Per es.: alla settima conduzione del programma X, con formula sempre uguale, lo stipendio sarebbe di un terzo rispetto alla prima edizione. Al quarto film dello stesso genere che fai, meno finanziamenti. E via dicendo. Incentivi a chi porta nuove proposte, nuove formule, nuovi ospiti. Per chi raggiunge o supera un determinato reddito artistico, obbligo di reinvestirne una quota in progetti di interesse culturale. 
6. Compito annuale, per ogni personalità del mondo dello spettacolo, di segnalare almeno un esordiente con cui collaborare.   
7. Rotazione della distribuzione geografica dei talenti: siamo molto ansiosi di conoscere comici della Val d’Aosta, attori dell’Alto Adige, presentatrici del Friuli e direttori d’orchestra di San Marino.  
Eccetera. 
Ultime due domande: la prima è su Padova, che è una città bellissima. Quali sono i tre percorsi, luoghi, librerie, angoli che consiglieresti di vedere, vivere per conoscere la città?
Consiglierei per prima cosa di svegliarsi molto presto e godersi la città semideserta che si schiude sotto l’alba. Partire da Prato della Valle. Percorrere le vie centrali, via Umberto, via Roma, a testa in su, guardando le finestre, i balconi e i giardini che sporgono dai muri e cancelli dei palazzi antichi, e annusare l’aria che in questo periodo sa di osmanto e di tutti i profumi che scendono dagli alberi e salgono dai corsi. Arrivare nel cuore di Padova, quello fatto di piazze, caffè e università. Fermarsi  per qualche minuto davanti al Pedrocchino, la parte gotica del Pedrocchi incastonata tra uno degli accessi al Caffè senza Porte e le altre case vicine. Entrare in più palazzi possibile: il Bo, Palazzo Moroni, della Ragione, il piano nobile del Pedrocchi e poi quelli di piazza Capitaniato. Se si riesce, infilarsi con qualche stratagemma anche in qualche casa privata, farsi portare ai piani alti e guardare la città da lassù, scoprendo tutti i giardini che nasconde. Ridiscendere, mescolarsi alla gente che comincia a circolare, sentire la città che si risveglia tra le botteghe sotto il Salone. Ascoltare il dialetto, le conversazioni dei commercianti. Osservare i cibi in esposizione dietro le serrande rialzate e qualche scavo sotterraneo. Oltrepassare Piazza dei Signori, le pietre e i segni astrologici brillanti sul grande orologio, e scivolare tra gli alberi immensi di piazza Capitaniato, poco prima del Liviano, sede di Lettere. Sulle radici dei bagolari ci si può anche sedere, e poi fare colazione con una cioccolata alla gianduia o al peperoncino nel bar all’angolo con via Patriarcato. Dopo l’ultimo sorso, percorrere tutta via Patriarcato, camminando in mezzo alla strada – tanto le macchine non passano quasi mai – e sentire i palazzi che si raccolgono sopra la testa, come due ali. Alla fine della via, individuare sulla destra il ristorante persiano. (Tenerlo presente per la cena). A quel punto, ci si trova davanti il percorso della riviere, la scia d’acqua lucida che attraversa la città. Si può decidere se andare a sinistra, verso la Specola, l’osservatorio astronomico, e poi la zona del Bassanello, oppure verso destra, incontrando a poco a poco ponte Molino e la parte vecchia del polo di Lettere – zona più misteriosa e intima, luce che scende a sprazzi e splendidi muri in pietra antica da accarezzare a palmo aperto. Per tornare indietro, consiglio via Dante e poi una piccola digressione al teatro Verdi (imbucarsi lì in occasione di qualsiasi conferenza, tanto è talmente bello che si può passare tranquillamente un’ora seduti sulle poltroncine rosse a guardare il soffitto). Rimangono poi il Duomo; uno slalom tra le vie quasi uguali del Ghetto, negozi artigiani e piccole osterie venete, un cinema dove guardare splendidi film (preferibilmente da soli); la zona di via Zabarella, via San Francesco, via Santa Sofia, via Altinate, ricca di librerie antiquarie e tipografie modernissime o vecchissime.
La seconda: quest’inverno come ti si riconosce? Cappello? Gonna? Tacchi? Pelliccia multicolore? Megafono? Sorrisi?
Chi lo sa? Il megafono non era programmato… Sono curiosa di scoprirlo anch’io. Amor fati…

 

Leggi l’intervista sul sito di Andrea.