Quando il calcio diventa un miracolo di grazia e istinto – su Il GiornaleOFF

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Nonostante tutti gli diano dello scemo, lui è un genio. È un miracolo del calcio. È pura grazia e istinto quando infila il pallone in porta. È generoso. Malinconico. Combina cazzate una dietro l’altra: ruba, fa a botte, sfascia macchine.

È Christian Ferro, Il campione, protagonista del film di Leonardo D’Agostini nelle sale in questi giorni.
Così il presidente della sua squadra, la Roma, gli cerca un professore perché lo metta in riga e gli faccia prendere almeno la maturità, a colpi di un esame alla settimana.
Valerio (Stefano Accorsi) è un ex insegnante di liceo che va avanti a lezioni private e non ha a cuore praticamente più niente. Non ci crede nessuno che possa funzionare quella storia delle ripetizioni, nemmeno lui.
Invece tra loro verrà fuori ‘qualcosa di bello’, come dirà qualcuno, verso la fine del film, senza pensare a Steiner. 

La trama potrebbe sembrare scontata, ma la sincerità e la delicatezza con cui il regista tiene le fila di tutto scombinano le carte.
Perché è vera la superficialità assurda che circonda ‘il campione’; la corte dei miracoli che lo segue, con tanto di maialino da compagnia, a ritmo di playstation e trap; la totale mancanza di interesse nei suoi confronti, perfino senza colpa: il cuore c’è o non c’è. La casa enorme che più si riempie più è vuota.
È vero Chris (il giovane Andrea Carpenzano) con quel suo romanesco strascicato a tratti incomprensibile, la sua ribellione mica tanto convinta, l’ironia, l’amore per il calcio, il suo modo di piegarsi, le incertezze, la paura di essere ancora più solo, gli insulti che non prende sul serio e quelli che lo fanno imbestialire, il suo dramma familiare che gli tiene una compagnia più dolce della fidanzata-influencer. Non è l’ennesimo caso di genio&sregolatezza e neanche di cattivo-che-però-in-fondo-è-buono, tant’è vero che più volte prende strade che non avevi proprio previsto.

E poi il campione ha una fotografia splendida e delle scene che sono piccoli quadri. Le riprese corali. Lo scontro in campo (poi non consumato) tra Chris e un giocatore avversario, con primissimi piani dei corpi che si avvicinano, quasi aderiscono, si allontanano: si sente il palpitare della loro pelle. La partita sotto la pioggia battente con i calciatori invisibili, che cita Blade Runner. L’uso particolare del silenzio, non compiaciuto e non nevrotico, nei dialoghi con Valerio.

È una bella fiaba contemporanea, questo primo lungometraggio di D’Agostini, un viaggio di formazione attraverso il bosco scintillante del successo e i mostri a due zampe con smartphone annesso. Se ogni tanto c’è un po’ di magia in più del reale glielo si perdona volentieri.

 

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